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Progetto di M. Bordin

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Critica di G. Segato

Articolo di V. Baradel

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Parole sulla pittura
Intervista realizzata a Parigi il 26 e 27 febbraio 2005
Da Philippe Villaume e Pascal Bordenave
Traduzione dal francese di Lorita Addabbo

(estratti)

P. B.: Mauro, il tuo dipinto dedicato ad Hiroshima dopo la bomba atomica, è un'opera dalle dimensioni davvero enormi, quasi 30 metri di lunghezza. Quando hai cominciato questo lavoro?
M. B.: Ho cominciato nel 2001, e ho terminato nel 2003, con qualche pausa. E' un lavoro per il quale ho scritto un progetto, non è “solo” un quadro...Volevo realizzare un'esposizione davvero “spettacolare” per rendere omaggio alla dimensione della tragedia umana.


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“Hiroshima” misura quasi trenta metri di lunghezza per due e mezzo d'altezza. Si tratta di un enorme puzzle composto da 220 parti assemblate. Il progetto espositivo prevede due fasi distinte: la “scomposizione” e la “ricomposizione”. Nella prima fase l'esposizione dell'opera è seguita dalla vendita delle parti del puzzle dissociate. L'idea è che la gente possa acquistare una parte del quadro durante l'esposizione lasciando così apparire degli spazi vuoti fino al cancellamento progressivo dell'opera. In questo modo cerco di illustrare, o meglio di rendere tangibile il meccanismo della memoria e dell'oblio. La seconda parte dell'esposizione, che avrà luogo fra un numero indeterminato d'anni, sarà consacrata alla ricostruzione dell'opera.

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P. B.: Ma sarà necessariamente una ricostruzione incompleta...
M. B.: Certamente incompleta, ma emblematica della memoria che si cancella. Alcune parti saranno probabilmente danneggiate, altre perse per sempre... Ma questo fa parte del meccanismo della memoria collettiva. Ognuno è depositario di un'esperienza individuale, simbolicamente raffigurata da una parte del quadro, parte che, per quanto piccola entità astratta ricavata da un'opera figurativa, rappresenta l'appartenenza all'evento. Attraverso la ricostruzione del quadro intendo sottolineare la necessità di alimentare la memoria e di affermare che di fronte agli eventi tragici della storia, quello che conta prima di tutto è la solidarietà, la necessità di trovare un accordo fra la gente per arrivare a qualcosa di costruttivo.
Il progetto mette dunque in scena una rappresentazione metaforica e rituale dell'azione distruttiva dell'uomo insieme alle possibilità di ricostruzione attraverso la memoria.

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P. B.: In questo lavoro si intravede una nuova dimensione rispetto alla tua opera precedente: c'è una presa di posizione nei confronti della storia dell'umanità.
M. B.: Sì. Ho cominciato la realizzazione di “Hiroshima” all'epoca della guerra in Afghanistan, ma non ho voluto fare un lavoro direttamente legato a questo paese. Ho preferito lavorare su una tragedia del passato, che mi permettesse implicitamente di esprimere il mio disaccordo di fronte agli avvenimenti del presente. Sono nato nel 1970 e sono cresciuto in un paese in cui ci hanno insegnato il rifiuto della guerra. Ma a quanto pare oggi la situazione è cambiata. È per questo che ho sentito la necessità di parlarne, di far luce sul presente attraverso il passato e, in un certo senso, di esorcizzarlo.

P. B.: Cosa ti ha dato, il fatto di lavorare su un quadro dal formato così inabituale?
M. B.: Per la prima volta nella mia carriera, ho lavorato su di un quadro che era troppo grande per essere visto nella sua integralità, quindi in un certo senso mi sono sentito come l'acquirente che avrebbe visto a casa sua solo una parte dell'opera. Ho dunque dovuto lavorare immaginando il risultato finale. L'ho visto per intero solo alla sua prima esposizione a Padova nel 2003. Fino a quel momento, non avevo un'idea precisa del risultato finale. Ero costretto a non concentrarmi troppo sul dettaglio e a tener sempre presente l'insieme dell'opera.


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P. B.: In che modo “Hiroshima” ha fatto evolvere la tua pittura?
M. B.: Prima di tutto, rispetto alla precedente serie delle crocifissioni, è un ‘opera più “ottimista”, anche se puo' sembrare paradossale. Hiroshima è un soggetto molto delicato, avevo paura di parlare di qualcosa che non conoscevo, poichè non l'avevo vissuto. Per me era importante commemorare e allo stesso tempo dare un messaggio di speranza da parte di un artista che non ha mai vissuto il dramma della guerra. Ho cercato di rendere leggibile tutto questo attraverso il colore; quest'ultimo elemento rappresenta l'energia che circola, la vita che controbilancia la morte. In realtà, la scelta di utlizzare molti colori per dipingere delle rovine, è un'idea che mi è stata suggerita da un passaggio di Se questo è un uomo , di Primo Levi, che descrive il tramonto su un campo di concentramento. Il contrasto fra la bellezza del cielo e lo squallore assoluto di Auschwitz sottolinea perfettamente la totale indifferenza della natura ai drammi umani, contrariamente all'atteggiamento “espressionista”, che consiste nel rappresentare una natura partecipe, atteggiamento che volevo evitare.